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Il pentimento di Sandokan: la svolta nella lotta alla criminalità organizzata

Francesco Schiavone, capo clan dei Casalesi, decide di collaborare con la giustizia, aprendo nuove prospettive investigative contro la criminalità organizzata.

Il pentimento di Sandokan: la svolta nella lotta alla criminalità organizzata

La Direzione nazionale antimafia (DNA) ha annunciato venerdì che Francesco Schiavone, conosciuto come “Sandokan” e capo del clan camorrista dei Casalesi, ha deciso di collaborare con la giustizia. Schiavone, settantenne, si trova in carcere dal 1998 e è sottoposto al regime carcerario 41bis, introdotto nel 1992 per contrastare la criminalità organizzata. Questa decisione è di grande rilevanza poiché Schiavone era considerato un elemento irriducibile, e le informazioni che potrebbe fornire alle autorità potrebbero portare a importanti sviluppi nelle indagini e nelle azioni contro la criminalità organizzata.

I collaboratori di giustizia sono individui condannati, spesso per reati di mafia, che scelgono di confessare alle autorità quanto sanno sui meccanismi interni dell’organizzazione criminale a cui hanno preso parte, al fine di ottenere sconti di pena, protezione o altri benefici. Comunemente definiti come “pentiti”, questi collaboratori possono decidere di cooperare per motivi diversi dal pentimento, come ad esempio la possibilità di uscire prima dal carcere. È importante distinguere i collaboratori di giustizia dai testimoni di giustizia, che non sono coinvolti direttamente nelle attività criminali ma ne sono stati testimoni o vittime, e che possono ricevere forme di protezione simili.

Le norme sulla collaborazione con la giustizia per individui accusati o condannati per reati di mafia furono introdotte nel 1991 su impulso del magistrato Giovanni Falcone, direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, ucciso l’anno successivo nella strage di Capaci. Queste norme si ispiravano a quelle già in vigore per i responsabili di reati terroristici, poiché Falcone e altri magistrati coinvolti nella lotta alle organizzazioni mafiose compresero l’importanza della collaborazione e delle informazioni fornite da individui interni ai gruppi criminali per le indagini.

La legge del 1991, ancora in vigore con alcune modifiche, prevede per i collaboratori di giustizia “speciali misure di protezione idonee ad assicurarne l’incolumità provvedendo, ove necessario, anche alla loro assistenza”. Uno dei principali ostacoli alla collaborazione era il rigido codice di omertà della criminalità organizzata, che mette a rischio chi viene considerato un traditore.

Per diventare collaboratori di giustizia non è sufficiente fornire informazioni alla magistratura: è essenziale che le informazioni siano attendibili e presentino un carattere di novità, completezza o notevole importanza per lo svolgimento delle indagini o per il processo investigativo.

Come incentivo, i collaboratori di giustizia ricevono uno sconto di pena, che prevede comunque la scontistica di almeno un quarto della condanna, un assegno di mantenimento nel caso in cui non possano lavorare e non abbiano altre entrate, e una forma di protezione per sé e i propri familiari, spesso con cambio di identità e residenza. Sono previste anche misure di reinserimento sociale e lavorativo per i collaboratori.

La legge sui collaboratori di giustizia è stata aggiornata nel 2001 con alcune modifiche, tra cui un limite di tempo di sei mesi per fornire tutte le informazioni e la distinzione tra collaboratore e testimone di giustizia. In Italia, tra i collaboratori di giustizia più noti si annoverano Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Carmine Schiavone (cugino di Francesco), Leonardo Vitale, Carmine Alfieri, Giovanni Pandico e Salvatore Contorno.

Nel caso di Schiavone, due figli e la moglie avevano già iniziato a collaborare con la giustizia e beneficiavano di un programma di protezione, mentre altri due figli, pur essendo detenuti, non avevano intrapreso la collaborazione.

Staff
  • PublishedApril 1, 2024